mercoledì 1 maggio 2013

La storia dell'olivo in Liguria

Strabone (63 a.C.-19 d.C.), nella sua Geografia, individua la diffusione della coltura dell’olivo nel mondo mediterraneo antico.  Tra le regioni olivicole ricorda anche la costa ligure.
E’ dunque probabile che l’olivo sia stato coltivato in Liguria fin dall’antichità.  Del resto la scoperta di un frantoio presso la villa del Varignano a Portevenere e la diffusione dell’olivicoltura in Provenza lasciano intendere questa tradizionale presenza.


Sono state forse le colonie greche focesi di Massalia (Marsiglia) e di Nikàia (Nizza) che hanno favorito, dal 600 al 400 a.C., un impianto selezionato dell’olivo nella regione.  La romanizzazione ha poi agevolato la presenza di ville rustiche e latifondi a ridosso della viabilità (via Julia Augusta dalla fine del I secolo a.C.) ove, probabilmente veniva coltivato l’olivo.
Ambrogio, vescovo di Milano, nel IV secolo d.C. ricorda che in Italia settentrionale l’olivo  si coltivava ovunque il clima lo rendesse possibile.  E’ quindi probabile che fosse presente anche in Liguria.
Nonostante questo, la costa ligure vedeva il continuo passaggio di navi intente al trasporto di vino, salse ed anche olio, in particolare proveniente dalla Spagna.  Infatti sono state trovati nel nizzardo frammenti di anfore di marca C.Antonius Quietus Y MIM originarie della Betica (Spagna meridionale).
Continuità dell’olivicoltura nel Medioevo.
Nonostante i secoli di crisi dovuti alla caduta dell’Impero Romano ed alle conseguenti invasioni barbariche, si può dire che l’estrema vitalità dell’olivo abbia avuto una sorta di sopravvento.  Dopo secoli di guerre e carestie, ai margini del periodo in cui la anche la Liguria era stata flagellata dal pericolo dei Saraceni e di altri predoni, in una fase caratterizzata da pericolosi vuoti di potere, una documentazione del  marzo del 979 cita espressamente l’olivicoltura. Si tratta della concessione di alcune terre nell’odierno territorio di San Remo da parte del vescovo di Genova Teodolfo ad un gruppo di coloni.
L’azione dei Benedettini nel Ponente ligure non è stata determinante per la coltivazione dell’olivo nel Ponente ligure.  Alcune presenze monastiche possono aver favorito una migliore gestione del territorio agricolo, ma non sembrano aver effettuato un’azione incisiva sulla cultivar del Ponente ligure, probabilmente già selezionata fin dall’età romana.   Nella riorganizzazione territoriale del pieno Medioevo si possono ricordare comunque molte presenze monastiche, generalmente benedettine, soprattutto nelle valli di Porto Maurizio.  Possono essere legate sia all’ambito piemontese (conventi di Caramagna Piemonte e Pinerolo), che ligure-nizzardo (conventi della Gallinaria e delle isole di Lérins).   Un piccolo presidio lerinese viene posto nel 1119, per espressa volontà degli abitanti, presso Vasia, nella valle del Prino (entroterra di Porto Maurizio), ora rinomato centro di produzione olearia.
I documenti disponibili riportano dati relativi in particolar modo all’uso religioso dell’olio di oliva.  Nel 1376, ad esempio, un certo Mundrino Badalucco di Pigna, in valle Nervia, lascia una libbra d’olio per le lampade delle locali chiese di San Tommaso e di San Michele.
Tra i nomi di luoghi più imprtanti legati all’impianto dell’olivo c’è quello di uno dei quartieri storici di Ventimiglia, appunto l’Oliveto, ove si vanno a situare a ridosso del 1000 i frati benedettini di Lérins (isola di fronte a Cannes) nella chiesa di San Michele donata dai conti di Ventimiglia.   Ora il quartiere è densamente abitato, mentre il toponimo lascia intendere un originale uso agricolo.
Nel 1175 si attua pure la vendita al vescovo di Albenga da parte di due esponenti della famiglia comitale dei Ventimiglia di un centro abitato ancora oggi esistente in valle Impero (entroterra di Oneglia – Imperia), a nome Olivastri.   Il riferimento alla presenza dell’olivo o forse dell’oleastro è palese.
L’agricoltura medievale nel Ponente ligure era caratterizzata dalla maggiore attenzione per la vite, per alcuni cereali, per le piante da frutto, fichi in particolare.  L’oliveto era presente in “aggregato” a queste altre colture, anche perché si pensava che l’olivo fosse favorito dalla presenza di altre piante vicine.  Le eventuali esportazioni di olio o prodotti derivati erano minoritarie rispetto a quelle di vino o fichi secchi.
Una prova di questa situazione è data dalla lettura degli Statuti delle diverse comunità, i quali, dal XIII all’inizio del XVI secolo, non si preoccupano dell’olivo se non in modo marginale.

L’espansione dell’oliveto nel tardo Medioevo.
In seguito alla crisi determinata dalla peste a metà del Trecento e dal peggioramento generale  delle condizioni atmosferiche, che determina climi più rigidi, si cominciano a creare le condizioni per una estensione della coltivazione dell’olivo.  La domanda di mercato è poi un fattore determinante.  Siamo nel tardo Medioevo, verso la metà del XV secolo.  In alcune aree del Ponente ligure inizia un fenomeno di impianto dell’oliveto che avrà termine solo nel XIX secolo.
Il fatto che l’olivicoltura del Ponente ligure cominci a produrre risorse anche per l’esportazione è accertato anche nel campo dell’uso sacro. Nella chiesa genovese di San Giovanni di Prè una lapide datata 1449 ricorda che una lampada sempre accesa presso l’altare del Corpo di Cristo era alimentata dall’olio proveniente dalla campagna delle Ciazze presso Civezza, nell’entroterra di Porto Maurizio.
All’inizio del XVI secolo il Ponente ligure presenta una diffusione dell’oliveto piuttosto diseguale: alcune valli hanno un sovrappiù di produzione, che quindi viene esportato.  Altre avevano ancora un livello produttivo inferiore al fabbisogno, anche se oggi appaiono ammantate dall’oliveto.  Testimonia questa situazione la “caratata” genovese del 1531.
Un’indagine catastale della metà del Cinquecento (1545-1554) relativa al territorio di Ventimiglia cita pochi nomi di luoghi riconducibili all’impianto dell’oliveto: Olliveri presso Mortola (quasi sull’attuale confine con la Francia), Oriastro e Arma de Olivee a Soldano
Altre testimonianze sono fornite dagli scrittori del tempo, soprattutto da quelli che descrivono il territorio della Repubblica di Genova.   Ne risulta una preponderanza dell’oliveto nel Dianese e nell’area di Porto Maurizio ed Oneglia.
L’andamento dei prezzi dell’olio (riportati in questa tabella con misure attuali e non con misure dell'epoca) favorisce ulteriormente l’impianto della coltura.  L’olivo prende il posto dei boschi o di altre colture come ci indica la toponomastica o la singola vicenda di alcuni terreni.  L’oliveto sale così fino ai 600 m. slm di Pornassio in valle Arroscia.
Parallelamente inizia un fenomeno di trasformazione dei molini da grano situati lungo i corsi d’acqua, ai quali si affiancano o si sostituiscono dei frantoi.  In Provincia di Imperia, prima dell’introduzione dell’energia elettrica, si distinguevano i frantoi ad acqua dai frantoi a sangue, mossi dall’energia animale.
In dialetto i termini tipici per indicare il frantoio sono gumbo o gombo e defiziu o defissiu.
Il termine gumbo è molto utilizzato nell’Imperiese.  Ha forse origini assai antiche.  Si può pensare persino alla terminologia del greco di Marsiglia (IV sec. a.C.), dalla quale provengono molti nomi liguri di attrezzi agricoli.   In questo caso la derivazione potrebbe nascere da forme verbali che indicano l’atto dello stringere o dello schiacciare.   Il termine defiziu non è altro che una contrazione dialettale del termine edificio da olio con il quale erano comunemente definiti i frantoi nei documenti dei secoli passati.
 
L'ETA' MODERNA: IL SEICENTO
L’ampliamento delle coltivazioni di olivo nel Ponente ligure è costante durante il Seicento.  In questo caso le testimonianze più importanti sono ancora fornite dalle “caratate”, dai “consignamenti” e dagli studi per la  “tassa sull’olio” imposta dalla Repubblica di Genova.   Anche i Savoia, però, ponevano, di tanto in tanto, tasse sul traffico oleario, spesso poi ridotte per la protesta dei Liguri sottoposti.
Un altro significativo documento relativo all’area dell’attuale Imperia è la precisa relazione di Gerardo Basso sul territorio del Principato di Oneglia, Maro e Prelà, condotta per incarico del governatore spagnolo di Milano nel 1615.  In questa relazione si legge che:
“produce questa valle quell’oglio tanto perfetto quanto per tutta Italia si sa” e “per l’eccellenza dei vini et ogli essi in ogni eccelenza vi nascono, e da forastieri detto il capo dell’oro”.
In base ad un capitolato d’oneri del 21 ottobre 1620 i fratelli Cardesi di Oneglia dovevano rifornire di olio l’intero ducato di Milano per il periodo di nove anni e tre mesi, con una scorta giornaliera di almeno tremila pelli (uno dei metodi di trasporto era infatti l’otre in pelle).   L’olio di oliva doveva essere sano, bello, buono, puro e chiaro della Riviera di Genova.
Sempre nei territori di Oneglia, Maro e Prelà, attorno al 1620 la produzione era di trentaseimila barili ogni due anni.   All’inizio del Settecento si arriva a sessantamila barili, in buona parte esportati.   Ne consegue che questi territori colmano in breve tempo il divario di collocazione dell’olivo rispetto, ad esempio, ai centri della vicina valle di Diano.
La diffusione dell’olivicoltura nel Ponente ligure era tale che nel 1663 i territori di questa regione fornivano il 68,3 % della tassa sull’olio per l’intera Repubblica di Genova.
 
L'ETA' MODERNA: IL SETTECENTO
 
Il Settecento è contraddistinto da alcune terribili battute d’arresto per l’olivicoltura del Ponente ligure: oltre al flagello della mosca si sono succedute alcune tremende gelate.  Si ricordano quelle del 1709 e del 1739.   Le condizioni climatiche, meno gradevoli di quelle attuali, rendevano frequenti le basse temperature.  Ne consegue che la maggior parte degli olivi oggi presenti sul territorio imperiese sono derivati dai polloni ripresisi dalle piante gelate in quelle tristi occasioni oppure si tratta di nuovi impianti.    Nel XVIII secolo l’olivo è ormai una monocultura in larghe aree dell’attuale provincia di Imperia.   Nel 1773 il grande cartografo genovese Matteo Vinzoni cita il territorio di Porto Maurizio e di Dolcedo “fertilissimo d’oglio”.  Secondo una testimonianza del primo Ottocento la gelata del 1709 è stata determinante per l’aumento della richiesta di olio dalla Provenza.  I produttori provenzali avrebbero allora insegnato ai frantoiani imperiesi il metodo per l’estrazione di un olio di migliore qualità.
All’inizio del Settecento l’olivicoltura si avvantaggia anche di innovazioni tecnologiche e commerciali.
Attorno al 1717 Pietro Vincenzo Mela, di famiglia originaria di Ville San Pietro in valle Impero (altri dicono di Dolceacqua o di Pantasina), ma nato a Porto Maurizio nel 1689 ed operante a Dolcedo (entroterra di Porto Maurizio)  introduce il sistema di lavatura delle sanse.  In questo modo si poteva ricavare circa il 5 % in più di olio, sia pure di non grande qualità, dalla polpa residua della spremitura delle olive.   Il lavaggio avveniva mediante una serie di vasche di decantazione ancora oggi spesso presenti nei complessi dei frantoi.
Sempre all’inizio del XVIII secolo la città e l’approdo di Porto Maurizio (oggi parte di Imperia)  si configura come il maggiore centro di commercializzazione dell’olio.  La classe imprenditoriale locale, provvista di uno stuolo di compratori (i cataùi) e di assaggiatori si allea con numerosi commercianti d’oltralpe, soprattutto francesi, i quali vengono a stabilirsi in città.
La vendita dell’olio è basata sulla varietà del prodotto e sulla capacità di stoccarlo, di proporlo al momento più favorevole e di esportarlo, soprattutto nei centri padani e persino nel Nord Europa ove era utilizzato sia a fini alimentari (conservazione di cibi) che industriali.
Esistevano due categorie di olio, quello spremuto per usi alimentari e quello lavato per usi industriali (ad esempio la produzione del sapone).  Dell’olio spremuto si distingueva quello chiaro (ricercato soprattutto nel Nordeuropa) e quello paglierino, acido e robusto.
La decantazione avveniva naturalmente, mediante continue asportazioni dei residui superficiali.  Non si filtrava nulla.    Secondo una consuetudine ancora ben viva tra XIX e XX secolo, si tendeva alla produzione quantitativa e non qualitativa.  Per agevolare la fuoriuscita di maggiori quantità di olio, le olive erano sovente lasciate per giorni e giorni all’ammasso, mentre oggi si tende a salvaguardare la qualità frangendo i frutti il più presto possibile.
I metodi per la lunga conservazione erano costituiti dalle giare e dai trogoli.
L'ETA' MODERNA: L'OTTOCENTO
Il XIX secolo segna l’apice dell’espansione dell’oliveto e della commercializzazione dell’olio nel territorio dell’attuale provincia di Imperia.
Le conoscenze acquisite in  tre secoli di espansione della coltura, le richieste del mercato ed il favore commerciale aumentano le capacità produttive, che raggiungono livelli assoluti.   Si crea quindi una dimensione etnografica in gran parte sopravvissuta fino ai nostri giorni, nonostante la riduzione delle superfici olearie coltivate.
Durante il XIX secolo si passa dalla commercializzazione mediante aziende, anche a partecipazione straniera, alla grande industria produttiva e commerciale, con grandi capacità distributive, tipica del tardo Ottocento e spesso attiva ancora oggi.
Importanti testimonianze statistiche e studi approfonditi sulla conduzione agricola del territorio sono fonti importantissime per la conoscenza del fenomeno.
Nel 1803 la Repubblica ligure, che succede alla Repubblica di Genova, risulta divisa in sei giurisdizioni.  Oneglia è capoluogo della sesta giurisdizione, detta “Giurisdizione degli Ulivi”.
Dopo il 1805 la Liguria fa parte dell’Impero Francese sotto Napoleone.  Poco dopo il prefetto del Dipartimento di Montenotte, che comprendeva parti delle attuali province di Savona, di Imperia oltre che del Piemonte meridionale, scrive un volume di assoluta importanza per la storia economica locale, la cosiddetta Statistique du Departement de Montenotte edita poi a Parigi nel 1824, ma basata su informazioni reperite entro il 1813.    Vi si considerano tutte le caratteristiche produttive ed economiche dell’olivicoltura.
Nel corso del XVIII secolo il prezzo del barile di olio (media di £ 42) garantisce un guadagno  rispetto al prezzo della giornata di lavoro (meno di 3 £ a giornata per il “lavoro da uomo”. Il lavoro femminile era pagato la metà).
Durante il XIX secolo il prezzo dell’olio cala progressivamente, anche se resta pur sempre un margine di guadagno per il produttore. Si parte da spese che arrivano appena ad ¼ del prezzo di vendita, finché verso il 1880 il prezzo dell’olio scende a ¾ di quello della giornata di lavoro.  Resta comunque il guadagno anche perché il territorio colturale è diviso tra moltissimi proprietari e la forza lavoro impiegata e familiare ed individuale  I salariati sono pochissimi.
Fanno eccezione, fino agli anni Quaranta del XX secolo, le maggiori proprietà
Qui può succedere che si prendessero al lavoro “in giornata” alcuni uomini per la “bacchiatura” delle olive (percussione con lunghe pertiche dei rami fruttiferi).   Le olive cadute, anche prima della bacchiatura non piombavano sulle reti, introdotte molto recentemente, ma raccolte pazientemente a mano.   Per questo lavoro erano spesso impiegate donne provenienti dal Piemonte meridionale o da zone della Liguria in cui non c’era attività agricola invernale.   Si spostavano in gruppi, vivevano in piccole stanze appositamente affittate e, ovviamente, il loro salario era minimo.  Talora si sposavano con giovani dei luoghi del Ponente ligure ove lavoravano.  Molte, provenienti da Sassello (provincia di Savona), erano dette Sasselline.
Tra la fine del XVIII e tutto il XIX secolo si arriva al massimo impegno di esportazione dell’olio con i mezzi allora utilizzati.   Via mare venivano esportati barili o anche “pelli”, ovvero otri in pelle spesso pieni di olio di minore qualità, come provano le bollette di carico ancora oggi conservate.    L’olio peggiore veniva inviato a Savona o a Marsiglia, ove si fabbricava il sapone.
Altro olio era inviato per via di terra.   Il volume di Giuseppe Maria Pira, edito a Genova nel 1847 oltre a riportare le quantità di olio prodotto da ciascun centro dell’antico Principato di Oneglia, Maro e Prelà, ricorda il traffico di olio con il Piemonte  effettuato anche dai piccoli paesi dell’entroterra, come Villa Guardia o Villa Viani.   Proprio in questi centri dell’entroterra si assiste ad un diffuso fenomeno di costruzione di nuovi frantoi ad acqua.  Se ne conserva persino qualche progetto.
 
I trattati dell’Ottocento.
Tra 1808 e 1879 si sviluppa trattatistica relativa all’economia olearia della Liguria.    Vi si descrivono i rapporti produttivi e la struttura sociale della regione, nonché le proposte per migliorare la resa colturale.   In alcuni casi viene lamentata l’ignoranza dei produttori, la scarsa conoscenza delle varietà, la minima capacità di reagire al flagello della mosca olearia. Tra i testi più noti si ricordano quello di Gian Maria Piccone (1808), di Agostino Bianchi (“Osservazioni sul clima, sul territorio e sulle acque della Liguria Marittima”, Genova, 1817), di Giuseppe Massa (1848), di Giulio Cappi (1875).
Emergono le problematiche dovute all’ormai instaurata monocoltura dell’olivo.    A questo proposito si raccomanda una sempre maggiore diversificazione dei prodotti agricoli.    Inoltre si tentano di introdurre tecniche estrattive migliori, soprattutto dai residui di lavorazione.   Si pensi all’uso di presse idrauliche o del solfuro di carbonio per ottenere olio dalle pellicole di olivo rimaste nelle sanse.    Sarà però l’energia elettrica all’inizio del XX secolo a rivoluzionare modi, tempi e quantità produttive.


Lo sviluppo dell’industria olearia tra XIX e XX secolo.
Nella seconda metà del XIX secolo l’esportazione di olio è favorita dall’abbassamento dei dazi imposti sull’importazione da vari paesi europei.   Si sono intanto consolidate alcune ditte o “ragioni” di produttori ed esportatori, situati nelle maggiori città.      Si tratta di aziende medio-piccole, ma in grado di movimentare una notevole quantità di merce.    Poche aziende aderiscono al primo registro della Camera di Commercio, entro il 1910.   Alcune sono amministrate da imprenditori forestieri.
Da un’analisi del senatore Paolo Boselli risulta che l’olivicoltura era presente in 102 dei 107 Comuni dell’allora Provincia di Porto Maurizio. La produzione ammontava mediamente a 9.300.000 chilogrammi, dei quali 7.100.000 Kg. era esportata.
I frantoiani imperiesi sono impegnati nel rinnovamento degli impianti, anche con l’introduzione dell’energia elettrica all’inizio del Novecento.   Per le mole è ancora utilizzata la pietra detta “colombina”, oggi sostituita dal granito.    Molti emigrano temporaneamente in Spagna, in Tunisia, in Calabria ove insegnano le migliori tecniche ai frantoi locali.
Nel 1890 sono censiti in Provincia 463 frantoi, dei quali 239 nel circondario di Porto Maurizio e 224 in quello di San Remo, con 864 torchi, dei quali 422 idraulici, 3 a vapore e 38 “a sangue”.   Gli operai sono 996.  Pur essendoci meno frantoi che nel resto della Liguria, la produzione è di molto maggiore a quella dell’intera regione.
Con il peggioramento dei trattati commerciali con la Francia, gli esportatori della Provincia ricercano nuovi spazi commerciali nel resto del mondo, trovando clientela tra gli emigranti nelle Americhe.   E’ così che i produttori, anche riuniti in consorzio, ottengono grandi successi in molte esposizioni internazionali: all’Universale di Pairigi già nel 1867 (“Produttori d’olio di Bordighera”), a Buenos Aires nel 1896 (“Carlo Muratorio” di Oneglia, “A.Realino & C.” di Diano Marina), in Guatemala nel 1897 (ancora “Realino”), a Buenos Aires nel 1910 (tra tutti si ricordano i “Calvo” di San Remo), a San  Francisco nel 1915 (“Olio Sasso”).  E si sono citati solo i riconoscimenti principali.
Per la spedizione dell’olio vengono utilizzate le lattine in banda stagnata, decorate all’esterno con immagini coloratissime ed accattivanti.   La loro produzione è uno dei capitoli attivi dell’industria provinciale e se ne conservano ancora oggi molti esemplari da collezione.
Un’ulteriore impulso alla commercializzazione è dovuta all’istituzione dei depositi franchi, legata alla possibilità di importare oli esteri di minore qualità da rettificare (vigeva il divieto di miscelarli con il pregiato, ma costoso, olio imperiese).
Nasce quindi la prima raffineria, modernissima, con impianti progettati dalla Van den Bergh di Rotterdam e con i capitali di banche e di industrie olearie pure toscane: è la “Sairo-Società Italiana Raffinazione Olii”.   Si poteva così raffinare anche l’olio di minore qualità, rendendolo appetibile.
In base ad una precisa tabella è possibile capire l’andamento dell’olivicoltura tra il 1909 ed il 1929.
E’ del 1911 l’istituzione del “Regio Oleificio Sperimentale di Porto Maurizio”, che nel 1924 diventerà “Istituto Sperimentale per l’Olivicoltura e l’Oleificio di Imperia”.  Questo Istituto dispone ancora dei suoi oliveti sperimentali ed ha insegnato tecniche di coltivazione, di protezione del frutto dai parassiti e di estrazione del prodotto a intere generazioni di addetti.
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, infine, vengono fondate alcune aziende, in parte presenti ancora oggi sul mercato.   In breve divengono leaders del settore, trainando l’intera economia provinciale: si ricordano la “Agnesi e Giaccone”, la “Fratelli Berio”, la “Pietro Isnardi”, già specializzata negli oli medicinali, la “Fratelli Calvo”, la “Fratelli Carli”, che vende direttamente al pubblico dal 1911, la “Agostino Novaro” dal 1860 che diviene poi “P.Sasso e Figli” assieme alla raffineria OLEA, tutte di Oneglia e ancora la “Escoffier-Guidi” di San Remo.
La ditta Sasso, mediante i figli di Agostino e di Paola Sasso, Mario ed Angiolo Silvio, diviene anche un importante veicolo culturale attraverso una sua rivista spedita inizialmente ai clienti, rimodernata nel 1900.    Edita fino al 1919, ospita articoli di grande valore letterario (scritti di Pascoli, Pirandello, Capuana, Deledda, Boine, Campana, Rebora ecc.) ed illustrazioni di gusto finissimo, improntate allo stile “Art Nouveau” su ideazione di Giorgio Kienerk, con la partecipazione di altri artisti, come Plinio Nomellini.
Il presente ed il futuro della ricerca.
Dopo la crisi con la seconda guerra mondiale ed il crollo dei prezzi nel corso del dopoguerra, oggi l’olivicoltura della Provincia di Imperia si riprende grazie alla ricerca della qualità.   Le superfici coltivate si sono ridotte notevolmente, ma i vecchi alberi producono ancora un olio splendido, nonostante le cure non più assidue.  L’introduzione delle reti plastiche all’inizio degli anni Settanta del Novecento favorisce una raccolta puntuale e costante.   Gli sforzi compiuti per migliorare la qualità del prodotto producono buoni risultati, confermati dai numerosi premi vinti nelle esposizioni internazionali.


La ricerca deve essere volta a ricostruire il panorama produttivo del passato, per conoscere e proteggere strutture che hanno dato ricchezza ai progenitori.  In tal senso è preziosa la ricerca del circolo “Ca’ de Puio” di San Bartolomeo al Mare, che ha censito 86 frantoi in valle Steria da Cervo a Villa Faraldi (si veda G.FEDOZZI, 1996).   E ancora si potrebbe parlare del censimento delle antiche mole, dei luoghi di cava delle pietre, dello studio dei canali di adduzione dell’acqua, delle ricerche economiche in merito alla produzione del passato.
Per non dimenticare, per far vivere l’olivicoltura storica.
 

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